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lunedì 23 maggio 2011

Il ricatto della precarietà

Tempo fa ci dicevano che la ricetta per la piena realizzazione degli individui nel lavoro, e quindi anche in tutta la loro vita, era la flessibilità, parolina magica in auge a partire dagli anni '90, che è stata declinata in mille modi diversi, ma che, almeno in Italia, sembra paurosamente coincidere sempre con precarietà.


Ci dicevano che, grazie alla flessibilità, era possibile cambiare la propria vita, seguire le proprie ispirazioni, rivoluzionare il proprio lavoro, anche a 50 anni. Ci dicevano che, grazie alla flessibilità, ognuno poteva costruirsi il proprio percorso e conciliare meglio la vita privata e quella lavorativa. Ci dicevano che la flessibilità sarebbe stata la soluzione per aumentare il tasso di attività e di occupazione delle donne, finalmente libere di "essere flessibili" e di riuscire ad unire "flessibilmente" i lavori di cura con il lavoro vero e proprio. Ci dicevano che la flessibilità avrebbe premiato il merito e punito i nullafacenti dal posto sicuro ed assicurato a vita. Ci dicevano che la flessibilità avrebbe ampliato la nostra libertà di scelta, di decidere della nostra vita e di essere meno schiavi del lavoro. Ci dicevano.
Ora si sentono in giro molti meno elogi della flessibilità, anche da parte di quelli che in Italia l'hanno sempre voluta e difesa. In effetti, anche loro, farebbero fatica a difendere la loro fallimentare creatura, che non è mai riuscita a diventare davvero una flessibilità matura e completa, sullo stile della flexicurity dei paesi del Nord, che, invece, coniuga flessibilità e sicurezza, grazie ad un avanzatissimo welfare state. Come potrebbero infatti negare l'evidenza della situazione italiana attuale? 2.000.000, solo fra i giovani, di NEET, ovvero Not in Education, Employment or Training, in parole più chiare, completi nullafacenti, numero che continua ad aumentare, rispetto agli anni precedenti. 
Ma è inutile riportare, ancora una volta, questi dati, che ci sono dolorosamente chiarissimi, e che per la mia generazione non sono più solo numeri, ma nomi, cognomi e storie di amici, colleghi, se non di noi stessi. La situazione la conosciamo tutti. E tutti i giorni speriamo che non tocchi a noi dare un volto a queste storie.
E quindi la flessibil-precarietà in Italia cosa ha portato?che libertà di scelta ci ha dato? Quale meriti ha premiato? Domande retoriche, a cui non è necessario dare risposte.
Alla fine dunque la flessibilità all'italiana ha negato proprio quelle cose che voleva garantire, in primis la libertà di poter scegliere con tranquillità il proprio percorso. In quest'epoca di desolazione e disoccupazione, infatti, è possibile mettersi in gioco, seguire le proprie aspirazioni, cambiare lavoro anche quando si ha la fortuna di averne uno? Se si trova un lavoro, bello o brutto che sia, non si è sotto ricatto, molto più di prima, a causa della paura di non poterne trovare un altro? Forse questa flessibilità ci sta spingendo a cercare, piuttosto, una grandissima staticità. Chi affronterebbe l'altissimo rischio di disoccupazione per inseguire la propria realizzazione lavorativa e personale oggi? In fondo mia nonna me lo diceva sempre "piuttosto che niente è meglio piuttosto", e proprio per questo la mia generazione è costretta, nel migliore dei casi, ad aggrapparsi al primo simil-lavoro capitato, anche a discapito di tutto il resto. Altro che libertà di scelta.

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