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lunedì 30 maggio 2011

Io non lavoro

No, tranquilli, non sto parlando di me... anche se i giorni che mancano alla scadenza del mio contratto stanno, precipitosamente, calando. 
Parlo di un libro. Io non lavoro. Storie di italiani felici ed improduttivi. 

Ebbene si, in un periodo di disoccupazione ai massimi, c'è anche chi si è interrogato ed ha indagato le storie di quella piccola fetta di italiani che non lavorano, per scelta, e che hanno raggiunto la felicità in questo modo. Sembra strano, e probabilmente è un po' provocatorio, ma è un modo un po' alternativo per addentrarsi, ancora una volta, sul tema del lavoro nella nostra epoca. Ed in particolare sul rapporto fra lavoro e vita privata, e fra lavoro e realizzazione personale. Io, l'ho già detto e scritto, appartengo a quella categoria di persone che senza niente da fare si annoierebbe. Ho sempre pensato che in caso di improvvisa ricchezza mi sarei comunque ritagliata qualcosa da fare, qualcosa di molto poco stressante, molto naif, molto sociale, ma in fondo pur sempre una forma di lavoro...una fondazione, un'associazione, volontariato, comunque qualcosa in cui investire le mie energie e le mie risorse, non solo economiche, per trovare un campo in cui realizzarsi. Altri non la pensano così. Ed arrivano a paradossale, ma forse molto logico, ragionamento secondo il quale se non si ha voglia di lavorare, ci sono tante possibilità per vivere o sopravvivere, senza "rubare" un posto di lavoro ad altri, più motivati, più capaci o più bisognosi.
Il lavoro può anche essere alienante, e sicuramente non è facile trovare, soprattutto oggi, la carriera dei nostri sogni, e allora ci sono alcune possibilità che vale la pena di prendere in considerazione.
Va bè, lo spirito del libro non è proprio questo, il libro è in realtà un racconto-inchiesta sulla vita e le storie di persone che, per vari motivi, hanno fatto la scelta di non lavorare, e che vengono narrate in modo appassionato e sincero, ma senza giudizi o moralismi, da parte dei due autori. 
Ma dopo una piacevole serata di presentazione del libro, dopo un po' di chiacchiere, di aneddoti, e anche di riflessioni molto serie da parte di Serena, una degli autori, sono arrivata alla mia personale rilettura dell'opera. In effetti, riflettendo sopra queste storie, possono anche nascere spunti interessanti, e allora perché non provare a trarre un po' di insegnamenti pratici per aspiranti nullafacenti felici??
- possibilità numero 1: sei ricco di famiglia. ok, caso facile e molto lineare, puoi non lavorare e ne sei consapevole fin dalla nascita. La difficoltà sta nel convincere i genitori a mantenerti tutta la vita, ma pare che l'iscrizione all'Università prolungata fino ai 40 anni, possa essere un'utile scusa per ottenere paghette.
- possibilità numero 2: trovi un lui/una lei che ti mantenga. Anche questa è in effetti la storia più vecchia del mondo, ma pur sempre molto efficace. Non fate l'errore di innamorarvi della persona sbagliata però! Mi raccomando, non siate ingenui, la prima cosa da chiedere è la dichiarazione dei redditi.
- possibilità numero 3: il caso/il talento ti regalano una facile e remunerativa carriera che tu sfrutti solo fino a che non hai quel minimo che basta per avere un reddito per tutta la vita, e poi ti ritiri. Bellissima idea che però pare funzioni solo per chi lavora nel mondo dello spettacolo ed è un genio.
- possibilità numero 4: vendi la tua grande casa di famiglia, costruita con i soldi e lo sforzo di varie generazioni. Con il ricavato compri il monolocale più a buon mercato che c'è, una casa decente ma non esagerata ed un appartamento. Poi ci si cimenta al gioco degli incastri: mamma e papà saranno rinchiusi nel monolocale (come ringraziamento di aver investito su di te e sulla tua istruzione), tu ti terrai la casa decente e affitterai a prezzi esorbitanti e possibilmente in nero l'appartamento. Anni di esperienza consigliano di affittarlo a studenti fuori sede, per garantirti la massima resa e il minor sforzo possibile in manutenzioni. Ed ecco il tuo reddito. Una bella rendita ottenuta senza far niente. Rendita che probabilmente, almeno nel caso italiano, sarà almeno uguale allo stipendio a cui puoi aspirare con una carriera media.
Inutile dire che, nel mio caso, mi vedo costretta a scartare, per vari motivi, le prime tre opzioni e a buttarmi sulla quarta. Mi sono fatta i miei conti e direi che ce la potrei fare senza problemi. Genitori, tremate, tremate le nuove generazioni sono arrivate!

Sono storie assurde? Ok, sono consigli ironici e paradossali, anche se, forse, non così fuori luogo in Italia, paese che dovrebbe essere una Repubblica fondata sul lavoro, ma che non sempre lo è.
Per ora continuo a coltivare la speranza di trovare una carriera che mi piaccia e che mi permetta di esprimermi, ma chissà che, a lungo andare, questa lettura non si riveli più utile del previsto.
E nel frattempo vi consiglio di leggere il libro!

lunedì 23 maggio 2011

Il ricatto della precarietà

Tempo fa ci dicevano che la ricetta per la piena realizzazione degli individui nel lavoro, e quindi anche in tutta la loro vita, era la flessibilità, parolina magica in auge a partire dagli anni '90, che è stata declinata in mille modi diversi, ma che, almeno in Italia, sembra paurosamente coincidere sempre con precarietà.


Ci dicevano che, grazie alla flessibilità, era possibile cambiare la propria vita, seguire le proprie ispirazioni, rivoluzionare il proprio lavoro, anche a 50 anni. Ci dicevano che, grazie alla flessibilità, ognuno poteva costruirsi il proprio percorso e conciliare meglio la vita privata e quella lavorativa. Ci dicevano che la flessibilità sarebbe stata la soluzione per aumentare il tasso di attività e di occupazione delle donne, finalmente libere di "essere flessibili" e di riuscire ad unire "flessibilmente" i lavori di cura con il lavoro vero e proprio. Ci dicevano che la flessibilità avrebbe premiato il merito e punito i nullafacenti dal posto sicuro ed assicurato a vita. Ci dicevano che la flessibilità avrebbe ampliato la nostra libertà di scelta, di decidere della nostra vita e di essere meno schiavi del lavoro. Ci dicevano.
Ora si sentono in giro molti meno elogi della flessibilità, anche da parte di quelli che in Italia l'hanno sempre voluta e difesa. In effetti, anche loro, farebbero fatica a difendere la loro fallimentare creatura, che non è mai riuscita a diventare davvero una flessibilità matura e completa, sullo stile della flexicurity dei paesi del Nord, che, invece, coniuga flessibilità e sicurezza, grazie ad un avanzatissimo welfare state. Come potrebbero infatti negare l'evidenza della situazione italiana attuale? 2.000.000, solo fra i giovani, di NEET, ovvero Not in Education, Employment or Training, in parole più chiare, completi nullafacenti, numero che continua ad aumentare, rispetto agli anni precedenti. 
Ma è inutile riportare, ancora una volta, questi dati, che ci sono dolorosamente chiarissimi, e che per la mia generazione non sono più solo numeri, ma nomi, cognomi e storie di amici, colleghi, se non di noi stessi. La situazione la conosciamo tutti. E tutti i giorni speriamo che non tocchi a noi dare un volto a queste storie.
E quindi la flessibil-precarietà in Italia cosa ha portato?che libertà di scelta ci ha dato? Quale meriti ha premiato? Domande retoriche, a cui non è necessario dare risposte.
Alla fine dunque la flessibilità all'italiana ha negato proprio quelle cose che voleva garantire, in primis la libertà di poter scegliere con tranquillità il proprio percorso. In quest'epoca di desolazione e disoccupazione, infatti, è possibile mettersi in gioco, seguire le proprie aspirazioni, cambiare lavoro anche quando si ha la fortuna di averne uno? Se si trova un lavoro, bello o brutto che sia, non si è sotto ricatto, molto più di prima, a causa della paura di non poterne trovare un altro? Forse questa flessibilità ci sta spingendo a cercare, piuttosto, una grandissima staticità. Chi affronterebbe l'altissimo rischio di disoccupazione per inseguire la propria realizzazione lavorativa e personale oggi? In fondo mia nonna me lo diceva sempre "piuttosto che niente è meglio piuttosto", e proprio per questo la mia generazione è costretta, nel migliore dei casi, ad aggrapparsi al primo simil-lavoro capitato, anche a discapito di tutto il resto. Altro che libertà di scelta.

martedì 17 maggio 2011

Fatti, non pugnette!

Oggi sono entrata in ufficio alle 9.30 e ne sono uscita alle 20.30, e nonostante l'enorme quantità di tempo che ci ho passato, mi sembra di aver lavorato davvero poco.
Non perchè il tempo è volato, anzi, non perchè ero così interessata da non accorgermi dell'orario, non perchè sia stata una giornata particolarmente piacevole. Sto parlando di produzione, output, risultati finali. 9 ore in ufficio per produrre 5 slides. Non ho fatto nient'altro. E ora non vorrei essere accusata di fancazzismo. Non mi sono girata i pollici tutto il tempo, ho fatto e rifatto e sistemato e risistemato 5 slides per tutte le 9 ore che ho passato in ufficio. E ora odio PowerPoint e le slides, odio che si va ad aggiungere a quello che ho già iniziato a provare per Excel e prospetti e tabelle annessi. Ho scoperto che il mio ufficio è il regno della pignoleria e che la filosofia "un tanto al kilo" non è proprio ammessa, neanche nelle cose più minime. Così mi sono ritrovata a provare 20 combinazioni di colori diversi per tutte le slides circa 10 volte, a spostare e rispostare ogni grafico di continuo, a cambiare carattere, a modificare ogni linea, a sperimentare nuove animazioni per tutta la giornata. E questo non mi fa sentire molto produttiva, ma un po' una perditempo. Eppure la linea dell'ufficio è questa, e questo è ciò che ci chiedono: perfezionismo fino all'ultima virgola. 
Ok, stavamo preparando le slides per un incontro ufficiale e molto importante che si terrà domani, con rappresentanti e dirigenti del Ministero a cui faccio consulenza e della Commissione Europea, ma nonostante questo mi sembra un po' paranoico cambiare 10 volte il colore dello sfondo da azzurro chiaro a azzurro cielo. O sono io che non capisco l'importanza della precisione? inizio a domandarmelo. 
E mi chiedo anche se si diventi iperpignoli a fare un lavoro del genere o se sia una dote innata, e in quest'ultimo caso mi chiedo se, forse, io non sia la più adatta a questo lavoro. 
Insomma, fra forma e sostanza io ho sempre privilegiato la sostanza. Fra contenitore e contenuto ho sempre curato più il contenuto. E ora mi ritrovo catapultata nel mondo del formalismo e della pignoleria. E mi sento una pasticciona. Com'è possibile non accorgersi che il quadratino nell'angolo in fondo aveva un angolo smussato di mezzo millimetro rispetto agli altri? Perchè non ti sei resa conto per prima che il giallo usato a pagina 9 è diverso da quello usato a pagina 53? E come ha fatto a sfuggirti quello spazio in più nell'ultima riga delle note??
Sarà che secondo me sono cazzatine che non rovinano un buon lavoro?? eppure pare che il resto del mondo, o almeno il resto del mio ufficio non la pensi così! Non fraintendetemi, so essere una persona precisa. Sono organizzata, puntuale ed ordinata. A scuola e all'università sono sempre stata conosciuta per la mia efficienza e precisione, eppure qua non è abbastanza.
Come fare?riuscirò ad adeguarmi a questi nuovi standard? Io sono donna e donna emiliana, cioè per definizione abituata al pragmatismo e alla praticità, cioè al motto "fatti, non pugnette", e ora, ogni tanto, mi sembra di dover dare troppa attenzione alle pugnette! Riuscirò a fare cambiare mentalità a tutti gli altri, o fra un po' mi ritroverete a scrivere un post 15 volte in brutta, prima di riuscire a pubblicarlo?


ah.. ho scritto questo post in 10 minuti, mentre controllavo l'acqua sul fuoco per il tè, mentre consigliavo la mia coinquilina su questioni di cuore e chattando su almeno due chat diverse con un paio di persone. Spero che la forma non ne risenta troppo!!! ;)

mercoledì 11 maggio 2011

Il lavoro dei sogni


AAA CERCASI COLLABORATORI!


visto che vengo accusata di non essere più una neolaureata alla ricerca di un lavoro, mi sono impegnata per trovare voci nuove e fresche, e più neolaureate di me, che potessero scrivere qui con me su questo blog.
Ecco la prima, neolaureata, giovane e brillante, proprio come me, nome in codice Vale. Piena di speranza per il suo futuro o già disillusa?Questo lo vedremo, ma intanto benvenuta sul blog!




Nel libro “Alta Fedeltà”, lo scrittore Nick Hornby fa stilare al suo protagonista – un trentacinquenne che gestisce un fatiscente negozio di dischi nella Londra degli anni ’90- la top-five dei lavori da sogno, ovvero quei mestieri giudicati stupendi ed irrealizzabili.
Dato che anche io sono una feticista delle classifiche, mi sono subito messa d’impegno per compilare la mia personale wishlist immaginando quali occupazioni mi avrebbero fatta balzare giù dal letto la mattina, piena di entusiasmo per la vita. Al primo posto, ovviamente, ho inserito il mestiere di cooperante in qualche progetto di sviluppo. Ovviamente, il fatto di aver trascorso gli ultimi cinque anni della mia vita a studiare questo settore ha influenzato la mia scelta. Ma è stato davvero solo questo? E, domanda ancora più interessante, perché immagino la possibilità di trovare lavoro nell’ambito dei miei studi come un’ eventualità così remota, come un “sogno” per l’appunto? Insomma, non ho messo al primo posto della mia top-five “fare la giornalista di Rolling Stones alla fine degli anni ‘60”, questa sì che sarebbe stata un’utopia! Ho solo espresso la legittima voglia di realizzarmi in quello che sono preparata a fare, dopo anni di studio e di sacrifici. Certo, non mi aspetto che il lavoro della mia vita mi piova addosso dal cielo. Bisogna essere flessibili, dinamici, aggiornati; occorre conoscere le lingue, fare stages, andare all’estero. Proprio per questo motivo, mentre compilavo il questionario Almalaurea nella sezione dei “Sei disposto a trasferirti/avere contratti a tempo determinato/lavorare in un settore che non è quello della tua formazione/ ecc “ ho barrato sempre sì. La realtà è che io, Noi (inteso come i giovani neolaureati), siamo più o meno disposti a tutto, animati dalla convinzione che “se saremo bravi e ci daremo da fare qualcuno ci noterà e magari un giorno avremo il nostro SuperLavoro”. Mentre scorazzavo in giro, appena tre giorni dopo essermi laureata, per portare il curriculum ( e badate bene, non solo nelle ONG e nelle aziende ma anche nei supermercati per fare la cassiera) mi è successo però quello che non ti aspetteresti mai, la manganellata sui denti. Non uno, ma quasi tutti i “possibili” datori di lavoro, scorrendo le mie qualifiche mi hanno detto: “Ah, lei è laureata?Ha anche la specializzazione? Uhm, le do un consiglio: se vuole trovare lavoro magari lo ometta”. Cosa?! Cos’è che devo omettere? Dovrei cestinare cinque anni di studio e di sforzi? E adesso chi glielo dice ai miei genitori, tanto fieri della loro prima laureata in famiglia?
Da qui potrei partire con una riflessione sulle falle del sistema universitario, concepito come una fabbrica di laureati. Oppure potrei inveire contro il mercato del lavoro italiano, troppo antico per recepire le nuove figure professionali. E già che ci sono, gettarmi a capofitto nel tema evergreen della corruzione, dei concorsi taroccati dove vincono sempre gli amici di qualcuno. Potrei fare tutto questo ma non ne ho l’intenzione. Ho 24 anni, sono piena di energie e di entusiasmo per la vita. Sono produttiva, creativa, lucida ed intuitiva come forse non sarò mai più per tutto il resto della mia vita professionale. Se qualcuno lo noterà, bene. Altrimenti ci sarà la fuga verso quei paesi che ancora sanno investire sui giovani. E se alla fine non riuscirò a realizzarmi come vorrei, il lavoro del cooperante nel primo posto della mia top-five verrà sostituito da quello di giornalista musicale negli anni ’60. Perlomeno è sanamente utopico, perlomeno potrei immaginarmi come sarebbe stato intervistare i Doors!

martedì 10 maggio 2011

Fra la noia e il superlavoro...c'è lo stage

Gli stage - e forse anche i lavori- sono di due tipi. 
Il primo tipo potrebbe essere definito stage inutile, cioè uno stage in cui la cosa più eccitante e formativa che si fa è un po' di fotocopie, magari in formati particolari. Questi tipi di stage sono praticamente sempre non retribuiti ed organizzati dalle Università, cioè servono solo a perdere tempo e a guadagnare un po' di crediti. Al massimo possono essere inseriti nel curriculum, sperando che facciano un po' mostra di sé, ma ci si deve poi inventare da zero le mansioni svolte e le cose imparate. La cosa più difficile di questi stage è far passare il tempo. Facebook, sempre che non sia bloccato nei computer del lavoro, è il miglior amico dello stagista annoiato, che in alcuni momenti preferirebbe essere sfruttato come cameriere-portaborse-tutto fare, e rendersi un po' utile, piuttosto che essere considerato come un soprammobile, che si è deciso di mettersi in ufficio solo per mantenere buoni rapporti con l'Università. Io ho provato questo tipo di stage, e per fortuna c'era il bar aziendale ed un po' di altri colleghi stagisti con cui prendere decine e decine di caffè al giorno. Questo stage non mi è servito assolutamente a nulla, ma dovevo farlo per forza, ed era davvero frustrante passare le giornate su internet e alla disperata ricerca di passatempi, soprattutto perchè avrebbe potuto davvero essere una bella occasione, ed io ero motivata, entusiasta e felice di darmi da fare. Sono stata una risorsa sprecata.
All'altro estremo c'è l'altra tipologia di stage, che può essere definito stage schiavitù, riconoscibile dal fatto che i poveri stagisti non alzano un minuto gli occhi dai computer e che fanno orari di lavoro da sfruttamento. Anche questo tipo di stage ha i suoi pregi e i suoi difetti, infatti, se da un lato la fatica è enorme, almeno, lavorare così tanto, inevitabilmente porta ad imparare, con la speranza di avere un rinnovo di contratto, o di diventare un po' più "appetibili" sul mercato del lavoro. Eppure anche l'ansia di non essere all'altezza, di avere troppe responsabilità fin dall'inizio, la paura continua di sbagliare può rendere uno stage interessante molto stressante.
Come al solito la nostra generazione è costretta da un estremo all'altro, non ha mezze misure, nè sfumature e vie di mezzo, e si dibatte impotente fra noia e schiavitù. 
Voi che preferireste?

martedì 3 maggio 2011

Gli esami non finiscono mai...

Si sente sempre dire che gli esami non finiscono mai, e solitamente si da un'interpretazione un po' negativa di questa frase...si immagina l'ansia, lo stress, l'insicurezza e la fatica che derivano dal dover preparare un esame, e si pensa che, purtroppo forse, di situazioni così ne capiteranno tutta la vita.
Però, da ex studentessa universitaria, che si considera ancora più vicina al mondo dello studio che a quello del lavoro, posso dire, ripensando al mio immediato passato, che in fondo dare esami non era così male. Certo, lo sto dicendo io che gli esami li ho già finiti, almeno quelli universitari, e mentre ero alle prese con libri, manuali, esercizi e tomi vari magari non lo dicevo in modo così convinto. Però, nonostante lo stress, nonostante la fatica, nonostante la paura, fare esami aveva anche degli aspetti positivi, ed io inizio a ripensare al periodo degli esami, e ovviamente anche a tutto il resto della vita universitaria, con un po' di nostalgia. (ok so bene che tutti quelli che stanno preparando esami in questo momento mi stanno insultando!)
Ripensate alle vostre prime amicizie all'Università, e forse anche al Liceo, alle Medie e così via, non sono forse nate studiando? Non conoscete quell'atmosfera pazzesca, frenetica e adrenalinica della sera prima dell'esame, tutti in gruppo a bere caffè ad oltranza e ad interrogarsi?e ovviamente a ridere per ogni scemenza, a fare pronostici e previsioni, ad architettare diabolici piani per copiare, a mangiare, riposare, farsi coraggio sempre tutti insieme?
L'università è anche questo. Fare esami è anche questo. è gruppo, comunità, amici, e condividere con queste persone un sacco di tempo. Ricordo quasi più i momenti passati a preparare gli esami, e tutti gli aneddoti che ci sono dietro, che i contenuti di quegli stessi esami. Statistica: so dove l'ho preparato, con chi (e da quell'esame sono nate importanti amicizie!) ma ricordo a malapena come si calcola la media. è stato un esame stressante, credo di aver pianto pure, è stato il mio voto più basso di tutta la mia carriera, non vedevo l'ora di verbalizzarlo e non pensarci mai più, eppure ora lo ricordo con affetto e nostalgia.
Lingua inglese alla specialistica: una materia inutile, noiosa, ripetitiva, stupida e purtroppo a frequenza obbligatoria, eppure mi sono divertita, ed ho migliorato molto le mie capacità di gioco a snake, sul cellulare!
Ricordo serate estive a preparare l'ultimo esame dell'anno, che da serate di studio si sono trasformate senza troppi rimpianti in serate in pizzeria. Ricordo di aver preparato esami in una giornata, contando sul fatto che i miei amici mi aiutassero, mi spiegassero e mi dicessero cosa dovevo sapere. Ricordo i lavori di gruppo, le slides, le sentenze, le preparazioni in comune.
Ricordo almeno una biblioteca per ogni città in cui ho vissuto e studiato, dalla piccola e per me sempre accogliente biblioteca comunale di Zola, al dipartimento di scienze economiche in Strada Maggiore, dalla biblioteca di Novoli a quella di Bruxelles durante il blocus. 
In fondo studiare non era così male, e se mi guardo indietro, e penso a tutte le persone che, grazie agli esami ho conosciuto e che mi sono ancora vicine, spero che davvero gli esami non finiscano mai!